Camminata serale del 7 luglio

 

Estate

 

Nelle azzurre sere d’estate, me ne andrò per i sentieri,

graffiato dagli steli, sfiorando l’erba nuova:

trasognato, ne sentirò la frescura sotto i piedi,

e lascerò che il vento mi bagni la testa nuda.

Non parlerò, non penserò a niente:

Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,

E andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro.

(Arthur Rimbaud)

 

C’è un giardino chiaro, fra mura basse,

di erba secca e di luce, che cuoce adagio

la sua terra. È una luce che sa di mare.

Tu respiri qàuell’erba. Tocchi i capelli

e ne scuoti il ricordo.

(Cesare Pavese)

 

Oh estate

abbondante,

carro

di mele mature,

bocca

di fragola

in mezzo al verde,

labbra

di susina selvatica,

strade

di morbida polvere

sopra

la polvere.

(Pablo Neruda)

 

 Quei ricordi dolcissimi. Un racconto breve in tempo d'estate.

 

Ero in aula assieme ad alcuni miei studenti durante una pausa nell'attività didattica.

Loro parlavano del più e del meno io, sfogliando il giornale, ascoltavo distrattamente le cose che dicevano: la fatica per i prossimi esami, qualche locale buono dove andare con le ragazze, le vacanze estive...

Ad un certo punto, come spesso succede in queste conversazioni disimpegnate in cui da un argomento si passa ad un altro, Martina iniziò a parlare di un "dolce con i pinoli buonissimo" che aveva mangiato la sera prima.

Poiché la passione tutta italiana per il buon cibo inizia da giovanissimi, l'intera conversazione finì per essere monopolizzata dalle specialità gastronomiche e, in particolare, visto che Martina aveva introdotto questo elemento, di quelle che avevano come ingredienti "i pinoli".

Così parlando del pesto alla genovese il cui segreto è nella qualità dl basilico, della "torta della nonna" acquistata presso l'unica pasticceria in Italia dove "la sanno veramente fare", i pinoli divennero i veri protagonisti della loro discussione. Improvvisamente Valerio esclamò con un tono misto tra l'esaltato e il malinconico: "Mi ricordo da bambino, quando mio nonno mi portava in pineta! Raccoglievamo assieme i pinoli, poi ci sedevamo, lui prendeva un sasso, mi insegnava a rompere il guscio e me li faceva mangiare...

Quant'erano buoni e che nostalgia di quei tempi!". E mentre diceva queste parole, sembrava quasi ispirato. Mi venne voglia di intromettermi in quel discorso e chiesi: "Valerio mi tolga (do sempre del lei ai miei studenti, ritengo sia una forma di rispetto) una curiosità, ma questo senso di nostalgia è rivolto agli anni della sua infanzia, ai pinoli o a che cos'altro?". Lui mi guardò un po' stupito della domanda rivoltagli così all'improvviso ma non si sottrasse alla risposta: "No professore, la nostalgia è per mio nonno, per i momenti meravigliosi passati assieme a lui;ora che non c'è più mi mancano moltissimo". "E che cosa ti manca di più?". "Non lo so, non saprei descrivere bene questa sensazione. Non è che con lui facessi cose particolari... Mi mancano la sua presenza, le sue abitudini, il suo modo di ragionare che mi faceva un po' sorridere, le sue fissazioni... Ogni volta che penso a lui mi sento preso da una grande dolcezza".

Una grande dolcezza...

Rimasi colpito da questa affermazione, tanto che chiesi agli altri presenti: "Ragazzi, vorrei farvi una domanda, voi però rispondetemi di getto, senza pensarci troppo, così come vi viene... allora ditemi: qual è il ricordo più dolce che avete?". I ragazzi, uno ad uno, iniziarono a rispondere, elencando varie situazioni, ognuna apparentemente diversa dalle altre. Ma tutte queste situazioni, avevano una componente che li univa: tutti questi ricordi dolcissimi erano legati ad un qualcosa vissuto assieme al proprio nonno o alla propria nonna. Cioè, in realtà, il vero ricordo dolcissimo era legato alla presenza nella propria vita di bambino o di bambina degli anziani della propria famiglia.

Mettendo insieme queste risposte iniziai a ragionare con i miei studenti facendo alcune considerazioni.

"Il vero ruolo dei vecchi nella società e nella famiglia - dissi quasi pensando ad alta voce - è intrinseco alla loro stessa presenza.

L'anziano, così com'è, con tutti i suoi limiti dettati dall'età e dal decadimento fisico, è essenziale.

Non tanto perché ha esperienza o saggezza e può dare ai giovani i consigli giusti (tra l'altro in questo mondo tecnologizzato e iper veloce questo compito degli anziani è divenuto oramai un retaggio del passato).

La presenza degli anziani è decisiva nella formazione delle persone, perché instilla fin da bambini un sentimento essenziale nella nostra vita: la tenerezza.

Con la propria debolezza, le proprie fissazioni, il proprio carattere indurito dall'età, ma anche con la propria affettività, il bisogno di dipendere da qualcuno, il gioire per i successi delle persone cui si vuole bene come se fossero i propri successi (o il patire per le loro disgrazie come se fossero le proprie), con tutto ciò l'anziano testimonia un modo di vivere estremamente eversivo in un mondo dominato dalla dittatura del successo personale e dalla competitività.

Si gli anziani sono rivoluzionari perché capaci di tenerezza e, soprattutto, suscitatori di tenerezza.

E' la tenerezza degli anziani che ci permetterà di ritrovare la nostra misura di umanità. Perché quel senso di tenerezza primordiale appreso da bambini grazie alla presenza dei nostri nonni, ce lo porteremo dietro tutta la vita, lo riproporremo di fronte alle situazioni che via, via ci si presenteranno e, quanto più lo manifesteremo, tanto più risulteremo empatici e simpatici.

Se la tenerezza rende migliore il mondo, un mondo senza anziani sarebbe un qualcosa di una tristezza e di uno squallore infiniti...".

I ragazzi, di fronte ai miei ragionamenti, mi guardarono un po' perplessi e lentamente tornarono al proprio posto per riprendere la lezione.

Non so se capirono tutto quello che volevo dire, non lo so...ma di una cosa ebbi come una strana percezione: qualcuno di loro, ascoltandomi, forse si intenerì.

 

Le emozioni dell'estate

 

Di un estate passata l’eco che mi riecheggia è quella della serenità.

Sereno è scorgere una pieve lungo il percorso, fermarsi, scendere e incrociare una ragazza. La costruzione è privata, informa, mentre il laghetto artificiale per la pesca sportiva è chiuso. “Poi c’è il fiume” – aggiunge – “e nient’altro”. Ma il “nient’altro” della nostra interlocutrice è, invece, straordinariamente meraviglioso. Imbocchiamo il viottolo di campagna, ci sediamo sul greto del torrente, gettiamo in acqua pezzetti di legno per vedere se riescono a superare, con l’aiuto della corrente, una piccola ansa. Nessuno parla. Attorno, come rassicurante coperta, ci avvolge il rumore della natura: lo scorrere dell’acqua e lo stormire rapsodico delle foglie. Per Lucio Battisti sarebbero “Emozioni”. Lo sono anche per noi. Il “nient’altro” è tutto.

Sereno è intravedere un’abbazia o quel che ne resta, entrare in una chiesa di campagna, eretta in puro stile romanico, avventurarsi nella cripta sottostante. Assediati ancora dal silenzio e poi l’incanto di un viso dolcissimo nella statua di una madonna.

Sereno è il profumo del carbone e poi una nuova carbonaia ormai pronta con l’omino, piccolo, il volto annerito dal fumo, il quale spiega pazientemente come siano necessari due giorni per ammucchiare la legna, dopo averla tagliata in precedenza nei boschi e il doppio del tempo per trasformare i tronchi in carbone. Che i giovani non hanno più intenzione di proseguire il lavoro che ha dato rassicurante benessere ai loro nonni e genitori, perché si tratta di un’attività dura, faticosa e che richiede pazienza. Tutto mi ricorda un romanzo breve di Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”.

Sereno è bagnarsi i piedi nelle cascatelle di acqua sulfurea e neppure avvertire che la temperatura è fredda. Forse è il cuore che scalda, forse l’idea che vivere in un altro modo è davvero possibile.

Sereno è alzare la testa al cielo e seguire con gli occhi, contorcendo il collo, i ghirigori delle rondini al tramonto, eseguiti con armoniosa bellezza ed eleganza. Si chiamano, s’inseguono, volano a stormi e poi, isolate, salgono (fin dove può salire una rondine?) per scendere quindi all’improvviso. Una danza ubriacante.

Sereno è valicare un passo appenninico al mattino, mentre la nebbia sale, provare inquietudine (ma l’autista è provetta, da nove), vivere un senso di isolamento e poi scendere verso il basso, mentre le montagne si allargano e la pianura si mostra in tutta la sua estensione.

Sereno è decidere di fermarsi, per mangiare un gelato, tra un grumo di case e scoprire che la gelateria è anche bar e poi bottega e chissà cos’altro ancora, che la mansueta signora, dai tratti gentili, lamenta il lento e progressivo decadere del comune, che si riduce ad una quarantina di anziani abitanti d’inverno, perché i giovani sono emigrati in città vicine. Eppure, nelle poche abitazioni circostanti, i giardini vivono l’animazione festante dei bambini. C’è pure un edificio che racchiude scuola materna ed elementare. E forse sono anche queste speranze di vita.

Sereno è addentrarsi nelle strette e ripide stradine di un borgo, stravolto fuori le mura da un cantiere edile eccessivo (la giunta è di sinistra, ma il partito del mattone non fa distinzioni), incrociare una vispa vecchina (95 anni) che ci indica la strada per salire alla torre dentata. Gli anni non sembrano pesarle, è rimasta vedova da poco, dopo 70 anni di matrimonio. Anzi, si scusa per averci fermato e disturbato. Tanti auguri, nonnina.

Si va verso la torre, purtroppo chiusa. Un altro vecchietto (85 anni) ci racconta dei tedeschi che volevano farla saltare per aria, ma in tal modo avrebbero pure fatto esplodere l’intero paesino e di come lui li avesse, invece, convinti ad accettare che fossero gli stessi abitanti ad abbattere la struttura per evitare danni ingenti. Poi la ricostruzione e la sorpresa di scoprire che la torre, originariamente, era merlata e non con le tegole sul tetto e subito il ripristino. La vecchia campana, invece, era ormai fuori uso. Al proposito la leggenda vuole che suonò il giorno della scoperta dell’America.

Sereno è addentrarsi tra i rovi, strappare le more e mangiarle per ritrovarsi poi con le gambe irritate da punture e graffi, ma il dolore è così lieve che si sperimenta ancora ogni volta che capita.

Sereno è annusare il finocchietto selvatico, la lavanda, scoprire in un parco le piante

officinali, aromi dell’infanzia lontana, le belle favole del passato che più non torna.

Sereno è scoprire un vecchio lavatoio, con acqua corrente freschissima che fuoriesce da due canali e che, chissà perché, nessuno pensa di sfruttare al meglio. Il manufatto è in stato di evidente abbandono, la data (1860?) incisa all’ingresso non è completamente leggibile. Però la gramigna non ha ancora invaso completamente l’interno dove una vasca centrale racconta le mille storie di donne che là si radunavano per strofinare i panni sulla pietra levigata. Nelle tre pareti attorno emergono gli alloggiamenti per le ceste o i canestri.

Sereno è pernottare in una camera che sembra quella di una bambola, con il calore e il colore delle pareti, dove è totalmente assente il freddo anonimato della stanze d’albergo. Stona (e disturba) solo la presenza immancabile del televisore, ma basta non accenderlo. Alla sveglia, anche se in ritardo, è deputato il gallo (chiaramente non ci sono più i galli di una volta e ora fanno il minimo sindacale di ore). Il sonno è invece accompagnato dalla colonna sonora del torrente che scorre proprio dietro l’edificio.

Ci tornerò (forse). Insieme (speriamo).

 

 

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