Castello di Querciola
Sorto su un rilievo della collina reggiana con la chiesa dedicata a Santa Maria Assunta è un antico borgo
Il complesso fortificato, che già all'aprirsi del XVIII secolo mostrava significativi segni di degrado, si presentava a quel tempo munito di due torri di guardia e altri ponti levatoi.
Le prime notizie del feudo risalgono al 980 quando questa struttura venne costruita per proteggere il vescovo di Reggio Emilia dalle scorrerie barbariche che in quel periodo si susseguivano senza sosta nel territorio emiliano. Il feudo rimase residenza vescovile estiva fino a quando, precisamente il 23 agosto 1233, il vescovo di allora decise di donarlo a una potente famiglia guelfa che aveva difeso la chiesa, i Fogliani, vassalli degli Estensi a partire dalla prima metà del Quattrocento, i quali ne mantennero la gestione fino al sedicesimo secolo. Ogni anno, l'ultima settimana di agosto, si organizza una sagra per rievocare e celebrare quell'investitura avvenuta tanti secoli fa
Le strutture superstiti dell'impianto castellano, appaiono oggi in larga misura riassorbite negli edifici che costituiscono il borgo di Querciola. Della fortezza si possono individuare i ruderi di un torrione circolare e alcune tracce in corrispondenza di uno sperone roccioso. GLI ABITANTI DEL BORGO. Per loro, oggi tre famiglie in tutto, trascorrere l'anno quasi isolati non è poi così strano. "Forse in inverno è un po' più scomodo muoversi in auto perché gli spazzaneve puliscono solo la stradina principale e alla nostra salita di accesso al borgo pensa mio zio con il trattore, altrimenti non usciamo più di casa. Del resto qui è molto tranquillo.
C’è il ricordo, i ricordi anzi, di un tempo.
Ricordo me in pigiama, piccolino e ancora caldo dell’alone del sonno autunnale, osservare la strada che costeggiava la mia casa in campagna.
Si sa che da bambini tutto è grande, tutto è confortante se ci viene propinato con un abbraccio o con una carezza.
Ed io mi imponevo ogni mattina, nel periodo della vendemmia di famiglia, di assistere al risveglio del piccolo borghetto nel quale abitavo. Incominciava la casa a svegliarsi, quella dove io ancora mollemente dormivo nel lettone di mamma coperto da una colorata copertona di lana a quadri che faceva odore di quella casa di campagna, come tutti gli oggetti effettivamente.
Era mio nonno a svegliarsi per primo.
Chissà perché il suo primo pensiero era aprire la porta d’ingresso con due fortissime mandate della porta d’alluminio. Secondo me voleva solamente respirare quell’aria che sa di mentuccia e foglie di noce, e proprio nella direzione del noce guardare per spaziare dietro, ed arrivare fino a dietro la casa del cacciatore che, solo in parte, copriva i filari verdissimi del nostro vigneto.
Poi piccoli lievi rumori in cucina.
Si preparava il caffè che avrebbe accompagnato a due biscotti.
Si intenda che mio nonno governava se stesso con metodica signorilità, benché passasse poi la giornata immerso nei suoi stivaloni coloniali di gomma di due taglie più grandi.
Si radeva con una tovaglietta di lino che copriva la spalla sinistra e nel frattempo sua moglie, mia nonna, lasciava il letto che non aveva diviso col marito bensì con la madre. Strana usanza, quella dei miei nonni, di dormire separati. Tuttavia così era, e così fu per anni.
Mia nonna, dal torace tenero e lieve, salutava la casa con una quotidiana quanto anch’essa metodica crisi di tosse.
Crisi di tosse che poi molto più in là le avrebbe data la morte. Poi lasciava il letto sua madre, la mia bisnonna, anch’essa con una crisi di tosse impari a quella della figlia alla quale però resisterà per molti anni dopo la sua dipartita.
E poi mia madre, che mi lasciava in un letto cento volte più grande di me. Io tutto caldo nel mio pigiamone rosso tutto d’un pezzo con un’unica cerniera dal collo alla pancia.
Avevo sentito già mio nonno aprire la porta di casa poco prima, forse in sogno, ma già sentivo l’odore del caffè e della brillantina Linetti alla lavanda.
E poi il profumo forte dei materassi di lana antica, l’odore dei passi di ciabatte dure che stridono strascicate sul pavimento.
L’odore delle campagne e della mia fanciullezza senza malizia. Di me che ero bambino, potendomi permettere di sentire profumo delle ciabatte che strisciavano ed il rumore della stufa che mia madre ha lasciato accesa così che io alzandomi potessi trovare un buon tepore.
E poi io. Io scatto dal letto e corro al balcone della cucina uscendovi. Sì, le montagne sono ancora lì.
E credo ancora, perché sono bambino, che siano veramente di carta pesta come mi ha detto la sera prima mia madre, e che a Natale ne prenderemo qualcuna per metterla nel presepe.
E mentre penso questo, solo nella solitaria dolce casa dei miei ricordi, guardando i monti e l’aria azzurra che sa di uccelli ai quali non so dare un nome, rientro a casa. Non c’è nessuno in cucina.
Stropicciandomi gli occhi arrivo all’uscio di casa e li trovo tutti lì, perché tra pochi minuti passerà il pascolo che sale in collina. Prima campanelli, poi i “beee beee”.
Passa un cane che corre ed abbaia e subito una decina di capre che corrono dietro lui. Poi pecore. Quante pecore, tutte bianche.
Altre capre e caprettini, pecorelle come fossero di gesso si accalcano per lasciare passare l’ariete forte, quasi azzurro, che scalcia e si spaventa solo di noi che lo guardiamo dall’alto delle scale in pietra lavica che portano al primo piano di quella casa che fu una volta fienile, e che oggi è l’ovile della mia famiglia.
A chiudere sempre gli agnellini che arrancano, un altro cane ed il pastore che saluta toccandosi la tesa, assolutamente non tesa, del cappelletto marrone da pastore di tratturo.
Anche se qui non ci sono proprio tratturi. Passato che fu ogni mattina il gregge, mio nonno scendeva le scale con una bottiglia vuota di vetro trasparente, attraversava i pochi passi di strada, sempre in ciabatte dure e nere di un decennio prima, e porgeva la bottiglia al vaccaro che ci aveva visti lì, sulla scala con alle spalle il vigneto, in attesa. Pochi minuti e gli ridava la bottiglia, non chiusa col tappo e schiumante di latte caldo. Saliva le scale, entrava a casa per primo, e tutti noi dietro di lui come nella processione di San Sebastiano, e metteva la bottiglia calda sulla tavola.
Allora cominciava la colazione. Come se nessuno fino a quel momento si fosse preparato il caffè. Subito veniva stesa la tovaglia a fantasie di caccia, raffigurante poiane e fagiani, fucili e corno da polvere da sparo. Poi le tazzine bianche e snelle bordate di turchese. Biscotti ai fichi e noci, quelli durissimi al miele, che io mi ostinavo a mangiare e per ogni biscotto impiegavo un quarto d’ora, due caffettiere calde che lasciavano scivolare un profumato vapore, frutta e latte. Quel latte che mio nonno non voleva si bollisse, almeno per me. Diceva che la febbre che mi sarebbe venuta nella mezz’ora successiva mi avrebbe fatto le ossa forti da grande.
Io ero piccolo . avevo il pigiamone rosso pieno di molliche appiccicaticce di mostaccioli al miele, ma nessuno mi avrebbe detto nulla, nessuno mi avrebbe guardato con occhio commiserevole. Ero un bambino che mangiava, con i capelli spettinati e gli occhi marroni grandi che ridevano. La sedia era di legno con il fondo di corda, e tre cuscini per farmi arrivare col mento alla tavola.
Guardavo, quanto guardavo quello che succedeva a tavola! Le mani che inseguivano conserve e coltelli, che si porgevano le tazze fumanti e che suonavano con i cucchiaini le tazzine.
Guardavo tutto, anche le briciole che uscivano da sotto le falde del fazzoletto di lino che copriva il ciambellone di mia nonna.
Era una tavola coloniale, l’ho detto C’era la cannella e la noce moscata da aggiungere alla ricotta fresca.
C’erano le prugne viola che credo di non aver mai mangiato da bambino.
A me, volente o nolente, mettevano due cucchiaini di “Orzo pupo” nel latte, ed io volente o nolente lo dovevo bere, mentre mia nonna mi tagliava a cubetti dei pezzettini di pane del giorno prima. Un gusto che non troverò mai più e che è riposto in una celletta dei miei ricordi.
Finita la colazione, mentre si sorseggiava, i grandi, l’ultima tazzina di caffè, si spartivano i compiti della mezza giornata fino al pranzo.
Il pomeriggio era per le passeggiate lungo il fiume o tra le trazzere a dar da mangiare agli asini i rami teneri di gelso. O si raccoglievano le pesche e si faceva la marmellata. Nei pomeriggi. Nei dolci pomeriggi di un tempo lontano lontano, ma per me ancora vicino. Vicino vicino.
E cominciava la giornata per tutti, meno per me che seguivo un po’ tutti i grandi uno per uno. Mia mamma per prima che lavava il palmento e le botti, le botti di rovere grande che si dice venivano dalla Spagna, nelle quali era invecchiato un vino dolce e fortissimo della Castiglia. “Per questo – diceva mio nonno – questo vino non diventa mai aceto”. Io questa cosa non l’ho mai capita, e cambiavo sovente compagnia. Andavo con mio nonno che nel frattempo contrattava la vendita di tutto quell’eccesso portentoso di mosto che non sarebbe entrato nelle nostre botti. Ma mi annoiavo, anche perché tutti i signori gentili e profumati di terra mi passavano la mano sui capelli fino alla guancia, e a me giusto di farmi carezzare non mi è mai andato. Poi raccoglievo un fico e lo portavo a mia mamma, che mi guardava dicendomi di posarlo sulla sedia perché non poteva mangiarlo, ma lo avrebbe certamente dopo mangiato. E lo mangiavo io.
Scendevo nella grotta dove fantasticavo ci fossero gli orchi, e scappavo immediatamente non appena sentivo il rumore di una lucertola smeraldo che frusciava tra il fogliame secco di ottobre.
Passava così la mia giornata.
Da Bambino.
Ieri, venticinque anni dopo, sono tornato in quella casa di campagna.
Molti di quelli che si alzavano per primi, anzi tutti, non ci sono nemmeno più.
Non c’è la tosse. Non c’è il primo caffè. Non c’è la brillantina Linetti ed io sono diventato troppo grande per quel lettone che non sa più di lana, ma solo dell’ammorbidente del mio pigiama di cotone a righe.
Il vaccaro è morto, il gregge non passa più. Il latte è tristemente in un bricco di cartone e viene importato forse dalla Slovenia.
Le bottiglie di vetro sono scomparse assieme al profumo delle montagne, la porta non la apre più nessuno e la casa dorme colpevolmente fino a mattina inoltrata.
Mi sono perso l’alba perché ho creduto che la notte fosse più affascinante. Ho perduto i biscotti al miele perché nella fretta del giorno prima sono arrivato tardi in campagna, e quel forno chiude troppo presto per i miei canoni cittadini.
Niente profumo di schiuma da barba perché la porto lunga.
Sconsolato mi siedo su di una seggiola di pelle nera. Sprofondo il mio viso tra le mani come a non voler vedere quel nulla che ho attorno, nella speranza che riaprendo gli occhi si muovano attorno a me i fantasmi della mia tenera età.
Adesso riconosco, tristemente, anche gli uccelli che volano in faccia alla mia finestra.
Faccio ri-sprofondare il mio viso tra le mani. Ritento l’ultima volta. Vediamo se i fantasmi tornano a curare la mia malata nostalgia. Stringo forte gli indici sugli occhi. Spero nel miracolo.
Li apro.
Che ci faccio io in piedi lì a preparare il caffè con una tovaglia bianca di lino sulla spalla sinistra?
E chi è questo bambino col pigiamino rosso, e mi somiglia tanto questo bambino, che sgattaiola tra le gambe mie per uscire sul balcone della cucina?
Io lì seduto vedo me che bevo una tazza di caffè guardando i dolci declivi del panorama della cucina.
Ed una donna, d’incanto, entra chiudendosi la vestaglia, facendo un leggero nodo all’altezza dello stomaco, e mi dice “Buongiorno caro. Tua mamma si sta alzando, la sento tossire. Prepariamo la colazione. La giornata oggi è lunga.”
E, detto questo la donna, stranezze, risento lieve l’odore delle montagne, mentre rannicchiato su di una poltrona a dondolo mi guardo sorridere a mia moglie mentre mette in tavola i biscotti al miele e la noce moscata. Con accanto la cannella. Per la ricotta appunto.
Quella mia storia vera,
Marco Strano.
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